E. A. Poe,
Racconti
Il cuore rivelatore
Lettura interpretata da Claudio Carini
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Per gentile concessione di "Recitar Leggendo Audiolibri"
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Sul serio! Io sono nervoso, molto nervoso, e lo sono sempre stato. Ma perché pretendete che io sia pazzo? Si, è vero, la malattia ha reso più penetranti i miei sensi, ma non li ha rovinati, non li ha distrutti! Io avevo, finissimo, il senso dell'udito e ho ascoltato tutte le voci del cielo e della terra. E molte anche dell'Inferno. Come potrei esser pazzo, allora? State dunque attenti e notate con quanto giudizio e, soprattutto, con quanta calma io posso narrarvi tutt'intero il fatto. E' impossibile stabilire in che modo quell'idea m'attraversò il cervello la prima volta. Io so solo che, una volta concepita, essa mi ossessionò giorno e notte. Un motivo preciso non c'era. La passione, ad esempio, non c’entrava per nulla. Io amavo quel buon vecchio. Egli non mi aveva mai fatto alcun male. Non mi aveva mai offeso. Io non desideravo il suo oro. Immagino che fosse il suo occhio! Sì, era quello senz'altro! Uno dei suoi occhi era simile a quello d'un avvoltoio... un occhio d'un azzurro pallido, come velato da una membrana. Quando esso cadeva su di me a guardarmi, il sangue mi s'agghiacciava nelle vene... e a poco a poco, lentamente, io mi fissai in quell’idea di togliergli la vita e di sbarazzarmi così, per sempre, di quel suo terribile occhio. Il problema era tutto qui. Voi credete che io sia pazzo. E i pazzi non sanno davvero quel che fanno. Avreste, invece, dovuto vedermi. E vedere ancora con quanta assennatezza mi posi al lavoro, con quanta circospezione, con quale alta sapienza di commediante e, infine, con quale preveggenza! Non ero stato mai tanto gentile col vecchio come durante tutta la settimana prima del suo assassinio. Ogni sera, verso la mezzanotte, io giravo la maniglia della sua porta e aprivo - ma piano, piano - aprivo un impercettibile spiraglio, e poi ancora... ancora... fintanto che non avevo aperto abbastanza da far entrare la mia testa, tutta, al di là della porta. Facevo passare, allora, una lanterna cieca, la quale era perfettamente chiusa. Perfettamente chiusa, dico, tanto che non ne usciva un solo raggio di luce. Allora arrivava il momento di affacciare la testa. A vedere con quanta agilità io compivo quell'operazione, voi avreste sicuramente riso. Io muovevo la mia testa, infatti, con una estrema lentezza. Estrema, dico, affinché il sonno del vecchio non potesse per nulla venir turbato. Trascorreva, di sicuro, un'ora intera perché potessi passarla tutta, e puntarla innanzi quel tanto che sarebbe stato sufficiente perché potessi vedere il vecchio coricato nel suo letto. Un pazzo - dite! - sarebbe stato tanto prudente? E come io avevo messo tutt'intera la testa nella stanza, allora cominciavo - ma con cautela, con infinita cautela - cominciavo a schiudere la lanterna, ma lentamente, con esasperante lentezza, perché la sua cerniera cigolava. Ed io la schiudevo quel tanto che era sufficiente a lasciar cadere un solo e impercettibile raggio di luce - un filo - su quell'occhio da avvoltoio: e per sette volte, per sette lunghissime notti, a mezzanotte in punto, tornai dal vecchio, e sempre trovai ben chiuso quel suo occhio, in modo che mi fu impossibile, non dico compiere, ma iniziare soltanto l'opera che m'ero proposto, giacché non era quel buon vecchio a eccitare la mia ira, ma quel suo orribile, malefico occhio. E quando faceva giorno, tutte le mattine, entravo spavaldo nella sua stanza e mi rivolgevo a lui senza nessuno scrupolo, e lo chiamavo col suo nome, mostrando la massima cordialità, e non mancavo mai di chiedergli come avesse trascorsa la sua notte. Ma dunque, non siete persuasi? Egli avrebbe dovuto esser fornito d'una sottilissima penetrazione, perché potesse sospettare che ogni notte, a mezzanotte, io ero là, da lui, e guardavo, guardavo il suo sonno. L'ottava notte, se possibile, fui ancora più cauto delle notti precedenti, nello schiudere la sua porta. La lancetta più piccola d'un orologio si sposta più veloce, nel suo giro, di quanto non facesse, allora, la mia mano, ed io, mentre operavo, meravigliavo della mia stessa sagacia, e a malapena sapevo contenere le sensazioni che il mio trionfo m'accendeva in petto. Pensate, dunque, e cercate di vedermi, mentre ero là e schiudevo la porta, d'un millimetro appresso all'altro, e il vecchio - lui! - non nutriva alcun sospetto, né delle mie azioni, né dei segreti pensieri che affollavano il mio animo. A quell'idea non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire un riso sommesso. Ed egli - forse - udì, poiché si rivoltò, all'improvviso, nel suo letto, come se stesse per risvegliarsi. Voi pensate ch'io, allora, mi stessi per ritrarre, vero? No certo. La tenebra che regnava nella stanza era fitta e profonda, poiché, timoroso dei ladri notturni, il vecchio chiudeva le imposte con una cura estrema, così ch'io avevo la certezza ch'egli non avrebbe potuto distinguere il varco che aprivo. E continuai ad aprire e ad allargarlo, e ancora... e ancora... Avevo affacciata la testa ed ero sul punto di schiudere la lanterna, quando il mio pollice scivolò sul metallo della serratura, e il vecchio si drizzò sul letto. E strillò: «Chi va là?». Io rimasi immobile, assolutamente immobile, e trattenni il respiro. Non mossi un muscolo durante un'ora e per tutto quel tempo non intesi il vecchio accennare a coricarsi nuovamente. Egli era sempre seduto sul suo letto. E ascoltava. Ascoltava come avevo ascoltato io, notti e notti, il rodio dei tarli tra parete e parete. Un gemito sommesso mi raggiunse improvviso l'orecchio, ed era il gemito d'uno spavento mortale. Esso non testimoniava né il dolore, né la pena, ma era il suono sordo e soffocato che s'innalza dal profondo di un'anima sopraffatta dal terrore. Io conoscevo quel suono, lo conoscevo bene. Per notti e notti, a mezzanotte, mentre il mondo intero era immerso nel sonno, esso era sgorgato dal mio petto e aveva risvegliato, colla sua eco agghiacciante, i terrori che m'opprimevano. Ripeto che io lo conoscevo bene. Sapevo ciò sentiva il povero e buon vecchio, e per quanto fossi posseduto da un estremo desiderio di ridere, non potei fare a meno ch'esserne mosso a pietà. Sapevo ch'egli era restato sveglio fin dal momento in cui aveva udito il primo, lieve rumore. Egli s'era rivoltato nel letto, e nel frattempo la sua paura era andata man mano aumentando. Aveva tentato di persuadersi che non v'era, per essi, alcun motivo, ma non vi era riuscito. Egli aveva detto tra sé: non è nulla di nulla; è il vento che soffia nel camino, è un sorcio che ha attraversato veloce l'impiantito, è soltanto un grillo, che ha emesso il suo piccolo strido. E s'era sforzato d'infondersi coraggio con simili ipotesi ma le aveva trovate tutte vane. Tutte vane, poiché la Morte che si avvicinava gli era passata dinanzi con la sua grande ombra nera, e lo aveva avviluppato in quella. Ed era soltanto il funereo influsso di quell'ombra invisibile che gli faceva sentire - anche se egli non vedeva nulla e non udiva nulla - la presenza della mia testa, in quella sua camera. Dopo che io ebbi atteso a lungo e inutilmente ch'egli si coricasse di nuovo, mi decisi, infine, a schiudere un po' quel mio lume, ma tanto poco ch'era quasi un nulla. E lo feci fulmineamente, in modo tale che voi non sapreste nemmeno immaginarlo, un unico pallido raggio, un sottile filo di ragno, uscì dalla fessura e andò a cadere, diritto, sull'occhio d'avvoltoio. Ed era aperto, era spalancato; e mi bastò appena guardarlo un solo istante ch'io ero già giunto al colmo dell'ira. Lo vidi perfettamente, lo vidi, quell'azzurro opaco, ricoperto dalla schifosa membrana che m'agghiacciava il midollo nelle ossa, lo vidi e non vidi null'altro all'infuori di esso dacché l'istinto aveva diretto l'unico sottil raggio del mio lume là, in quel punto dannato. Non v'ho già detto che la pazzia di cui mi accusate altro non è se non iperacutezza dei miei sensi? Ebbene, un rumore sordo e soffocato e intermittente mi giunse all'orecchio, ed esso era simile a quello che produrrebbe un orologio che sia stato avvoltolato nella bambagia. Ed io riconobbi quel rumore. Esso scaturiva dal cuore del vecchio, e quel rumore eccitò la mia furia, al modo stesso che il rullo del tamburo esaspera il coraggio del soldato. E tuttavia io seppi contenermi e non mi mossi, e rimasi immobile, e non osavo quasi respirare, e badavo soltanto a tener fermo quell'unico raggio del mio lume, diritto, sull'occhio d'avvoltoio. E intanto la marcia infernale del suo cuore scandiva più forti i suoi colpi, sempre più forti, diveniva precipitosa e alzava il tono, il timbro, lo alzava, lo alzava! Il terrore del vecchio doveva essere estremo! E il battito del suo cuore diveniva più forte di minuto in minuto... Ma mi seguite, dunque, con attenzione? Vi ho detto ch'ero nervoso, terribilmente nervoso - e lo ero, infatti - ma quel rumore, nel silenzio notturno, nel pauroso silenzio notturno di quella vecchia casa, riempì il mio animo di un insopportabile terrore. E mi trattenni - certo! - mi trattenni ancora per qualche istante, e non mi mossi dal mio posto. Ma quel battito si faceva più forte, sempre più forte. Pareva che quel cuore stesse per scoppiare. E così fui posseduto da nuova angoscia. Certo! Certo! Il rumore avrebbe potuto essere inteso da qualche vicino... No, no! L'ora del vecchio era suonata! Spalancai il mio lume tutt'intero e mi precipitai, insieme, con un urlo fortissimo, nella stanza. Il vecchio non emise un grido, non un solo grido, dico. State bene attenti? Io lo scaraventai giù dal giaciglio sull'impiantito, in un attimo solo, e gli rovesciai addosso tutto il peso del letto. Fu allora che, accortomi d'essere ormai a buon punto nella mia opera, mi lasciai andare a ridere per la gioia. E tuttavia il suo cuore continuò ancora per qualche istante a battere ma d'un battito sordo e velato. E io non ne fui allarmato. Attraverso il muro non lo avrebbe potuto udire nessuno: vacillò ancora, poi si spense del tutto. Il vecchio era morto. Rimossi il letto ed esaminai il suo cadavere. Certo, egli era morto, morto stecchito. Posai la mia mano sul suo cuore e ve la trattenni un qualche minuto. Non s'udiva alcuna pulsazione. Egli era morto stecchito. Il suo occhio aveva cessato per sempre di tormentarmi. Se ancora insistete a credermi pazzo, vi persuaderete del contrario quando vi avrò dato delle informazioni sulle sagge precauzioni che usai per nascondere il cadavere. La notte avanzava e io lavoravo in fretta, ma anche in silenzio. Spiccai, dapprima, dal corpo, la testa. Fu poi la volta delle braccia e delle gambe. Tolsi quindi dall'impiantito tre assi e nascosi il tutto tra i regoli. Restituii, poi, il loro luogo alle assi, e con tale destrezza e perizia che nessun occhio umano - neanche il suo - avrebbe potuto accorgersi di nulla. Non c'era nemmeno nulla da lavare, non una sola traccia di sudicio, non la minima goccia di sangue! Oh! Si, io ero stato bene accorto anche in quello! Un catino aveva raccolto prudentemente il tutto. Sarebbe stata da ridere. Come ebbi terminato quel lavoro, l'orologio del campanile vicino batteva le quattro. Ma la tenebra era come a mezzanotte. Mentre battevano le ore, udii picchiare all'uscio di strada. Discesi per aprire, ed ero perfettamente tranquillo. Cosa potevo temere ormai? Entrarono tre uomini che si dissero ufficiali di polizia, e le loro maniere apparvero estremamente cortesi. Un vicino aveva udito gridare nella notte, e, sorto il sospetto che un qualche delitto potesse essere stato consumato nei paraggi, ne aveva informata la polizia. I tre gentiluomini erano stati, infatti, mandati a ispezionare il quartiere. Io sorrisi: di che cosa, infatti, potevo ancora aver paura? Diedi così il benvenuto ai tre uomini, e dissi che il grido era sfuggito a me stesso, in sogno. Dissi loro che il mio vecchio amico era ancora in viaggio, e li condussi, inoltre, a visitare tutta la casa. Dissi loro di cercare e soprattutto li spronai a cercare bene. E alla fine li condussi anche nella sua camera. Mostrai loro i suoi tesori, che erano intatti e in ordine perfetto. Nell'entusiasmo che mi possedeva, presi due sedie e li supplicai di riposarsi lì, in quella stanza e, nella folle audacia del sicuro trionfo, andai a metter la mia sedia proprio sul luogo dove si trovava nascosto, tagliato in pezzi, il cadavere della mia vittima. Le guardie parevano soddisfatte. Il mio comportamento pareva che li avesse convinti. Io, poi, mi sentivo completamente tranquillo. Sedettero, dunque, e cominciarono a parlare del più e del meno, e io rispondevo a tutto con umore eccellente... ma, a un tratto, m'accorsi che stavo impallidendo e, non so come, desiderai che se ne andassero. Cominciò a dolermi il capo, infatti, e un ronzio penetrante cominciò a infastidirmi le orecchie. E tuttavia essi restavano seduti e continuavano a chiacchierare. In quel mentre il ronzio, una sorta di tintinnio, diventò più distinto e, per non udirlo, cominciai a parlare anch'io, più che potevo, ma esso non si lasciò sopraffare e acquistò un carattere ben preciso, e dovetti riconoscere, infine, che esso non era nelle mie orecchie. Sicuramente io diventai estremamente pallido, e mi ostinai nella conversazione e con foga sempre maggiore. Ma quel rumore aumentava di minuto in minuto. Che cosa avrei potuto fare? Esso era un rumore sordo e soffocato e intermittente, e in tutto simile a quello che produrrebbe un orologio avvoltolato nella bambagia. Io respiravo a fatica: e gli agenti? Oh, gli agenti non lo sentivano ancora. Tentai di parlare più in fretta e più forte ma quel rumore cresceva senza tregua. Mi tolsi dalla sedia e cominciai a discorrere di futili argomenti, ma ad altissima voce e con furia, mentre il rumore cresceva, cresceva a ogni minuto. Ma perché non se ne andavano? Io misuravo, su e giù, a passi pesanti, il pavimento, esasperato da quella loro discussione, ed il rumore cresceva con regolarità, con assoluta costanza. Gran Dio; che cosa potevo fare? Mi agitavo, smaniavo, maledicevo! Scuotevo la seggiola sulla quale m'ero prima seduto, la facevo scricchiolare sull'impiantito, ma quel rumore aveva ormai sommerso tutto il resto, e cresceva e cresceva ancora, senza sosta, interminabilmente. E diventava più forte, sempre più forte, e gli uomini chiacchieravano e scherzavano e ridevano. Ma era mai possibile che non lo udissero? Iddio onnipotente! No, no! Essi udivano, essi sospettavano, essi sapevano, eppure si divertivano allo spettacolo del mio terrore, così almeno mi parve e lo credo tuttavia. Ma ogni cosa sarebbe stata da preferirsi a quella orribile derisione. Io non mi sentivo, ormai, di sopportare oltre quelle loro ipocrite risa. Sentii che dovevo gridare o morire. E intanto, ecco - lo udite? - ecco, ascoltate! Esso si fa più forte, più forte, e ancora più forte, sempre più forte! «Miserabili! Ipocriti!», urlai. «Non fingete oltre! Confesso ogni cosa. Ma togliete, togliete quelle tavole, scoperchiate l'impiantito! E' là. E' là sotto! E' il battito del suo terribile cuore!». IL GATTO NERO Quand'è che uno decide di scrivere un racconto dell'orrore? Quando è esasperato. Quando le contraddizioni gli appaiono talmente grandi da risultare irrisolvibili, almeno coi mezzi consueti. Orrore vuol appunto dire "chiamare in causa soluzioni non naturali" (o fuori dell'ordinario), le quali, appunto perché inconsuete, risultano quasi indipendenti dalla natura umana, una sorta di ineluttabile fatalità. Infatti le soluzioni sono quasi sempre dettate da uno spirito vendicativo, come se la vendetta decisa da forze superiori fosse il sostituto più convincente della capacità umana di risolvere i problemi col buon senso, la razionalità, l'altruismo, lo spirito di tolleranza, la pratica della democrazia ecc. Prendiamo ad es. Il gatto nero di E. A. Poe. Il protagonista, da bambino, aveva un indole docile e affettuosa, una natura sensibile e, per questa ragione, veniva preso in giro dai compagni. Cercando però di affermarsi nella società, s'era accorto che queste qualità erano in realtà dei difetti, proprio perché i criteri di vita erano basati sulla sopraffazione, sull'antagonismo. Ed ecco la trasformazione negativa: si ubriaca, diventa violento, uccide il gatto e la moglie. E alla fine un altro gatto, simile al primo, lo porta alla pena capitale. La china non poteva essere risalita. Non c'è perdono per chi sbaglia strada. E la vendetta arriva puntuale, inesorabile. Là dove gli uomini sono impotenti a risolvere i loro problemi, ci pensa il destino, l'imponderabilità di forze sovrumane. Affetti, sentimenti, umanità: tutto viene fatto a pezzi. E l'intelligenza viene usata per mistificare la realtà, per sottrarsi alle proprie responsabilità. Ma proprio quando ci si illude d'avercela fatta, l'imprevedibile ha la meglio e il colpevole è consegnato alla giustizia. L'autore affida all'horror il compito di agire come valvola di sfogo, al fine di contenere, di attenuare l'urto terribile delle contraddizioni sociali. I racconti di Poe sono uno spaccato eloquente del Nord America nella prima metà del XIX sec. Anche nella Mascherata della Morte Rossa vengono fatti fuori dal destino, con l'aristocratico principe, tutta la sua corte, che avevano pensato di potersi sottrarre alla pestilenza godendosi la bella vita. Non vengono espropriati di tutti i loro beni dai servi della gleba, ma vengono fisicamente eliminati dalla pestilenza. All'impotenza degli uomini supplisce la forza del destino. |
Scheda biografica - La maschera della Morte Rossa
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